Le Rame di Napoli, nella provincia di Catania, sono i dolci di punta della Festa dei Morti. Nonostante il nome sembri tradirne un’origine partenopea, in verità i biscotti sarebbero nati proprio alle pendici dell’Etna. Anche se, sebbene siano passati più di un paio di secoli da quando sono apparsi nelle tavole etnee, le loro radici sono ancora avvolte nel mistero e nella leggenda. Oggi, di sicuro, a partire dalla seconda metà di ottobre, nel Catanese le Rame di Napoli si trovano un po’ ovunque, dai bar alle pasticcerie passando per i panifici, senza contare le preparazioni in casa.
Origine delle Rame di Napoli: le tre leggende
Come si accennava, non si sa bene quando, come e perché qualcuno abbia preparato per la prima volta le Rame di Napoli. E la domanda, ogni anno in questo periodo, si ripete spesso nel Catanese. Dove l’origine dei biscotti ovali viene fatta risalire a tre leggende legate al Regno Borbonico.
La prima teoria
Alla fine del Settecento, sotto Carlo III di Borbone, il Regno di Napoli viene unito a quello di Sicilia e il sovrano, dato l’aumento della popolazione, è costretto a coniare una nuova moneta. Ma, essendo praticamente azzerate le riserve d’oro e d’argento, il nuovo conio viene battuto in lega di rame, di valore molto basso. Così, nel Regno, si inizia a diffondere la voce che a breve si sarebbe potuto pagare anche in scarti di cibo. Sull’onda di questo sentimento popolare, un panettiere catanese avrebbe ideato, proprio con degli scarti di forno, dei biscotti a forma ovale cui avrebbe dato il nome di Rame di Napoli.
La seconda teoria
Le Rame di Napoli sarebbero state l’ultima trovata in materia di dolci di un pasticcere etneo di nome Napoli. Origine per cui, però, non si spiegherebbe di pre-nome “Rame”.
Terza (e ultima) teoria
Alcuni pasticceri di Catania, dopo aver appreso del passaggio della Sicilia sotto il dominio borbonico, avrebbero deciso di omaggiare il nuovo sovrano inviandogli dei biscotti preparati per l’occasione. Un atto di vassallaggio, dunque, sarebbe alla base di un antico atto di vassallaggio.
Le Rame di Napoli: la tradizione siciliana
Mentre per le Festività dei Morti a Napoli impazza il torrone, Catania (e dintorni) replica con le Rame di Napoli. I biscotti tradizionali erano (e sono ancora) di forma ovale, fatti con farina e miele, ripieni alla marmellata di arance o di fichi e glassati al cioccolato fondente. Oggi la ricetta è un po’ cambiata e, sebbene la versione tradizionale persista nelle cucine di mamme, nonne e in alcuni panifici, in giro si trovano tante declinazioni al pistacchio, alla Nutella, al cioccolato bianco e anche con diversi dolci Kinder.
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Sempre per restare in tema di tradizione, una volta i biscotti comparivano nella notte tra l’1 Novembre e il 2 come regalo da parte dei parenti defunti che, eccezionalmente per quell’occasione, abbandonavano l’aldilà per tornare – in qualche modo – al mondo. A beneficiarne erano soprattutto i bambini, ai quali in quelle festività venivano regalati oltre ai dolci anche giocattoli e vestiti.
E per chi volesse approfondire l’argomento, ecco come lo scrittore Andrea Camilleri racconta delle Rame di Napoli.
Le Rame di Napoli: da un racconto dello scrittore Andrea Camilleri
“Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.
Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.
I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, rami di meli fatti di farina e miele, mustazzola di vino cotto e altre delizie come viscottiregina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il pupo di zucchero che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.
Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine.
Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e stampato, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire”.
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